L'elegante copertina blu Sellerio e la raffinatissima carta su cui il libro è stampato nascondono un viaggio straordinario nella miseria e nella nobiltà dell'animo umano, portando il lettore a vedere la vita attraverso un punto di vista inatteso, ovvero quello di un ergastolano. L'autore del libro è Elvio Fassone, un giudice torinese, presidente del tribunale che, dopo un "maxi processo" con oltre duecento imputati, condannò all'ergastolo il vero protagonista del libro, Salvatore, un giovane mafioso catanese (28 anni) con un curriculum di omicidi, traffico di stupefacenti, etc. tale da giustificare ampiamente l'applicazione di tale pena.
Ma il giudice Fassone non è un giudice "qualsiasi", e poco dopo la condanna e l'inizio per Salvatore di una vita in carcere, da cui sarebbe uscito solo "con i piedi in avanti", stimolato dai brevi colloqui avuti con Salvatore durante il processo, gli scrive una breve lettera, a cui acclude un libro, scegliendo (curiosamente!) Siddharta, di Herman Hesse. Ancor più straordinariamente Salvatore gli risponde, nel suo italiano zoppicante e smozzicato da semi-analfabeta, dando così inizio ad un epistolario sicuramente unico, e durato ventisei anni.
E Fassone ci narra di questa corrispondenza, in un testo che si svolge su almeno due piani. Il primo, il più immediato, il più emotivamente coinvolgente, è costituito dalle lettere di Salvatore, di cui Fassone riporta ampi stralci. Prive di ogni scudo stilistico, nella loro brutale semplicità testuale, queste lettere mettono a nudo l'anima di uomo proveniente da un ambiente in cui il comportamento criminale è endemico, "culturale". È un ambiente che per la stragrande maggioranza dei lettori apparirà tanto remoto quanto quello di una tribù di tagliatori di teste della Nuova Guinea (ammesso che ne esistano ancora), ma l'umanità profonda, travolgente di Salvatore, fa sì che il lettore non potrà che sentirlo vicino, vivendo le sue tribolazioni all'interno dell'universo carcerario con profonda empatia.
Il secondo piano del testo è quello proprio del giudice Fassone, che inframmezza la corrispondenza di Salvatore con una discussione, profonda quanto giusta, sulla natura della pena dell'ergastolo, sulla sua umanità, nonché sui suoi aspetti giuridici, in particolare la sua costituzionalità. Non vi è dubbio che Fassone sia persona di grandissima sensibilità ed umanità, oltre che raffinato giurista, cosicché le sue discussioni sul tema sono di grande interesse.
La profonda umanità di Salvatore viene a galla proprio dall'accostamento dei dui piani presenti nel libro: preso a sé il saggio di Fassone sull'ergastolo sarebbe interessante, scritto molto bene e con grande sensibilità etica. Ma, l'umanità che trabocca dalle scarne e sgrammaticate pagine di Salvatore è tale da far apparire quasi freddo e distaccato, verrebbe da dire quasi arido, il pur coinvoltissimo Fassone. Liddove Fassone intesse un discorso ragionato e ineccepibile, l'umanità disperata di Salvatore sfonda la pagina, spazzando ogni raffinatezza giuridica con la forza della propria sofferenza.
Nessuno (tantomeno Fassone) ignora che Salvatore sia entrato in carcere a causa dei crimini efferati che ha commesso. Non lo nega, in nessuna occasione, lo stesso Salvatore, che è ben cosciente del male, del dolore che ha inflitto e di cui è stato allo stesso tempo vittima, al punto da ritenere giustificata la conferma dell'ergastolo in appello. Né Fassone tenta mai di giustificare Salvatore. Ma leggendo ciò che Salvatore scrive è impossibile non essere colpiti dall'umanità profonda del suo animo, dalla voglia di imparare e migliorarsi, dagli sforzi per acquisire la licenza elementare, dalla gioia che prova quando, ammesso alla semi-libertà può lavorare.
Purtroppo l'universo carcerario non ammette che il detenuto abbia una personalità, e Salvatore batte la testa ripetutamente contro regole becere, da comma 22, che sembrano contrapporsi al mandato costituzionale che prevede che la pena carceraria abbia come fine primo ed ultimo la rieducazione del detenuto.
In realtà, leggendo questo testo è impossibile percepire che la pena dell'ergastolo possa avere alcun fine rieducativo. Col suo burocratico "Fine pena: mai" l'ergastolo prevede che il detenuto possa uscire dal carcere solamente da morto. Nella sua ineluttabilità, nel suo negare che il detenuto possa essere mai "redento", l'ergastolo appare come una pena, se possibile, ancor più dura della stessa pena di morte.
Alla fine il lettore (o almeno, questo lettore) non può che ringraziare il giudice Fassone per il coraggio che ha avuto nell'intraprendere una così anomala corrispondenza, per la costanza che ha avuto nel portarla avanti per ventisei anni, e per aver permesso al lettore di essere parte di questa straordinaria avventura umana. E lo stesso lettore non può che augurarsi che le sofferenze di Salvatore portino ad una revisione di norme carcerarie inutilmente vessatorie quando non crudeli. Nonché, augurarsi che l'anima di Salvatore abbia trovato quella pace che in vita le è stata negata.