L'immagine di sé che la maggior parte degli italiani ha di sé è indubbiamente peculiare, con un forte, diffuso senso di inferiorità nei confronti direi quasi del resto del mondo, associata ad un ritenersi diffusamente mediocri, nonché un po' cialtroni e disorganizzati. Il senso di inferiorità nei confronti del resto del mondo è rivelato dalle espressioni di indignazione con cui in Italia si commenta ogni tipo di scandali; vi è inevitabilmente qualcuno dice o scrive "altrove queste cose non succedono", "in un paese civile queste cose non succedono", oppure "neanche fossimo il Burkina Faso", seguito poi da un "anzi, non è giusto insultare il Burkina Faso paragonandolo a noi". E via dicendo. Non vi è dubbio che in Italia si sia spesso pronti, prontissimi a criticarsi (salvo risentirsi nel sentire tali critiche espresse da uno straniero).
È un tratto della cultura italiana che ho sempre trovato curioso, anzi, ad essere sincero, un po' provinciale, in quanto chi dice (o scrive) "altrove queste cose non succedono", molto difficilmente ha vissuto "altrove", così che la sua locuzione è normalmente basata su un altrove mitico ed idealizzato. Animato da questa curiosità, ho acquistato il saggio di Domenico Rea, "La fabbrica dell'obbedienza", che ho letto rapidamente, inizialmente con interesse, poi, andando avanti, con crescente irritazione e noia.
L'autore promette un analisi del carattere nazionale e delle sue radici, un'impresa di tutto rispetto, e, sicuramente, di tutto interesse. Una promessa che, sia pure sfumata ripetutamente da affermazioni di modestia dell'autore stesso ("si tratta di modeste opinioni personali senza ambizione alcuna..."), il libro purtroppo non mantiene.
La partenza è interessante, con un'analisi dell'opinione sul carattere nazionale così come espressa da diversi autori. Rapidamente però appare la tesi unica del libro, tesi che viene ripetuta costantemente, diventando rapidamente un'ipotesi quando non un dogma, alla cui luce viene letto qualsiasi fatto, qualsiasi elemento distintivo della storia dell'Italia. La tesi è che la morte del Rinascimento e la decadenza morale e culturale dell'Italia dal '600 ad oggi sia tutta imputabile e spiegabile come effetto della Controriforma, e conseguentemente di Santa Romana Chiesa.
Personalmente, che la linea della Riforma sia la vera linea di separazione in Europa, ne sono sempre stato convinto. Da qui a dire però che alla Controriforma sono imputabili tutti i misfatti della storia d'Italia di strada però ne passa. Che l'influenza della Chiesa in Italia sia stata significativa, è un fatto storico ineluttabile. Che a quest'influenza siano da attribuire tutti i mali del paese, è a mio modesto avviso una visione semplicistica e tutto sommato poco utile per capire la complessità di una società intera.
Più in generale, credo che qualsiasi spiegazione semplicistica, che attribuisce il "carattere nazionale" ad una singola causa, sia superficiale nonché di scarso aiuto nel capire la realtà. Avevo iniziato a leggere il libro di Rea con interesse, interesse che però è andato scemando rapidamente quando mi sono reso conto che, dopo alcuni interessanti spunti iniziali, una volta esposta la semplice tesi iniziale della responsabilità di ogni male d'Italia da parte della Chiesa attraverso la Controriforma, il resto del libro non era che una serie di esempi tesi a "dimostrare" la posizione preconcetta dell'autore.
Per fare ciò Rea non esita a piegare le vicende complesse di alcuni personaggi del passato al servizio della propria semplicistica tesi, privandoli così della complessità che è inevitabilmente parte della loro grandezza. Vi è una lunga divagazione su Giordano Bruno, presentato come un libero pensatore quando non precursore della scienza moderna, mandato al rogo dall'Inquisizione. In qualche modo Bruno viene presentato come una metafora di ciò che l'Italia post-Rinascimentale avrebbe potuto essere se non fosse stata soffocata dalla Chiesa. La simbologia può anche essere attraente, ma è certo superficiale. Fermo restando che la condanna al rogo di Bruno (così di come ogni altra vittima dell'Inquisizione) è un orrore che non ammette alcuna giustificazione, ciò non rende Bruno una figura "idilliaca". Il suo pensiero non aveva nulla di scientifico, le sue tesi sulle pluralità dei mondi, per quando possano apparire attraenti oggi sulla base della nostra conoscenza dell'Universo, erano il risultato di speculazioni filosofiche, non di analisi scientifiche "razionali". La sua fuga itinerante per l'Europa non fu dovuta ad un suo essere inseguito dall'Inquisizione, quanto ad una sua capacità di mettersi in urto con chiunque avesse cercato di aiutarlo. Nulla di tutto ciò è sia pur vagamente presente nell'analisi superficiale di Rea, per cui Bruno è solo un simbolo che viene usato a dimostrazione di una tesi dogmatica. Ovvero proprio ciò che Bruno avrebbe plausibilmente criticato aspramente...
Simile trattamento è riservato al Caravaggio. Non vi è dubbio che questo sia stato un genio assoluto, uno di quei rari pittori la cui opera trascende la propria epoca nonché ogni definizione di scuola o di stile, un vero e proprio "patrimonio dell'umanità". E non vi è dubbio che alcune sue opere furono rifiutate dagli ordini religiosi che ne erano stati i committenti in quanto non aderenti ai canoni stilistico-teologici di questi ultimi. Da lì però a fare del Caravaggio qualcuno che è scampato per miracolo all'Inquisizione e quindi ne è stato comunque vittima, di strada ne passa. La fuga del Caravaggio fu dovuta ad un omicidio, perseguito quindi dalle autorità secolari come del resto era giusto che fosse. L'immaginario e fantasioso atto d'accusa di un inquisitore nei confronti del Caravaggio, con cui Rea riempie pagine e pagine del suo libro, non si capisce cosa voglia dimostrare, se non la pochezza intellettuale della tesi dell'autore, che non esita ad ipotizzare la presenza (di cui non vi è traccia storica) di Caravaggio al rogo di Bruno per stabilire un legame fra i due.
Il fondo del libro è però raggiunto dalle divagazioni meridionaliste in cui Rea si lancia verso la fine del libro. Si tratta di tesi trite e spesso contraddittorie, secondo cui insomma i mali odierni del Sud Italia derivano tutti (o almeno in gran parte) dall'invasione delle truppe savoiarde. Il progresso della Napoli borbonica viene evidenziato con i noti argomenti semplicistici (aver fatto una ferrovia, la brevissima Napoli-Portici, prima degli inglesi, etc.), progresso che i rozzi Savoia hanno stroncato sul nascere. Di nuovo, chi scrive non ha dubbi che la lettura ufficiale della storia del periodo noto come "Risorgimento" (già il nome è un capolavoro di retorica) a cui è stato esposto ogni studente italiano sia viziata dal pregiudizio dei vincitori, appunto perché vi furono vinti e vincitori, non liberati e liberatori. Ma di nuovo, le tesi semplicistiche che Rea sembra sposare sono storicamente carenti e tutt'altro che nuove.
Del resto, questo è collegato ad un certo provincialismo evidente nell'analisi ed in particolare nelle citazioni, campo in cui Rea sembra mescolare le opinioni degli autori del Grand Tour (interessanti storicamente, e usate argutamente all'inizio del libro, ma non necessariamente pertinenti all'Italia moderna) con quelle di autori poco conosciuti e spesso rigorosamente napoletani, conferendo al libro l'aria della dissertazione di un professore di liceo di provincia in pensione, che si è dilettato a pubblicare un saggio a proprie spese.
Per concludere, l'opinione di chi scrive è che Rea farà bene a continuare a fare ciò che sa far bene, ovvero scrivere narrativa, che continuerò a leggere con piacere. La saggistica impegnata non sembra davvero essere il suo campo.