Avevo letto qualche altro libro, di Evelina Santangelo, e uno in particolare l'avevo trovato gradevole e intelligente. Peccato non poter dire lo stesso di "Non va sempre così". Il libro ha difficoltà a reggersi in piedi, sia sul piano del registro narrativo che sul piano della scrittura, e il messaggio etico che trasmette è a dir poco negativo. La scelta del registro narrativo è, per un romanzo, una scelta chiave, che determina la percezione dello scritto e quindi, in gran parte, il modo in cui il lettore "riceve" il libro. Gran parte di "Non va sempre così" si svolge su un registro narrativo incerto, a metà strada fra un realismo duro, incentrato sulle difficoltà di persone che sembrerebbero arrabattarsi per arrivare alla fine del mese, spesso avendo perso il lavoro nonché gli affetti, e un registro "fiabesco", in cui alla fine tutto si aggiusta, per cui tutta la narrazione risulta essere una favola a lieto fine, con un virtuale ed inespresso "e vissero tutti felici e contenti". L'autrice cerca di temperare il registro realista passando a tratti (non sempre con successo) a un registro ironico. Il tutto risulta stridente ed incoerente, e a peggiorare le cose vi è il carattere immaturo ed eternamente indeciso della protagonista, che non è riuscita a suscitare alcuna simpatia in questo lettore, che l'ha trovata irritante nella sua incapacità di prendere il controllo sulla propria vita.
La scrittura dell'autrice, in "Non va sempre così", ha parecchi passaggi gradevoli e ben scritti, ma è irrimediabilmente marezzata da pagine e pagine di divagazioni irrilevanti per la narrazione e scritte in modo pedante e ripetitivo. Pagine e pagine, appunto, che potrebbero essere eliminate dal libro senza che questo ne risenta negativamente in alcun modo - anzi! In realtà questo è il lavoro che avrebbe dovuto fare l'editor dell'Einaudi, lavorando con l'autrice per ripulire il libro da una serie di lussureggianti elenchi che annoiano il lettore senza creare un'atmosfera. Per far sapere al lettore che quand'era ventenne la protagonista polemizzava col padre a proposito delle vicende difficili dell'Italia degli anni di piombo non c'è alcuna necessità di riempire un'intera pagina con un elenco degli attentati, con tanto di date e nomi. Se il lettore legge la prima voce dell'elenco, salta la pagina e legge l'ultima voce, non avrà perso nulla. Se li legge tutti, si sarà annoiato e avrà perso il filo della narrazione. Lo stesso vale per una mezza pagina di elencazione di usi "rivoluzionari" per la bicicletta, con tanto di nomi e dati di partigiani che avevano usato la bicicletta. Al terzo nome il concetto è sufficientemente chiaro...
Infine, la narrazione dell'Italia in crisi è uno strumento narrativo oramai abusato, e purtroppo abusato dall'autrice, con una struttura impregnata di cliché. Certamente la vita è fatta di cliché, ma uno scrittore deve sapere trascendere questa dimensione - altrimenti tanto vale che il lettore segua la conversazione fra sconosciuti in una coda all'ufficio postale o dal salumiere.
Infine la nota etica: sì, la protagonista, lavoratrice intellettuale (insegnante), è rimasta disoccupata, e alla fine, per mantenersi, considera in extremis l'ipotesi di un lavoro manuale (cameriera in un locale), che nasconda da amici e parenti, come se stesse facendo qualcosa di illecito o comunque di cui vergognarsi. Il messaggio, implicito ma forte, è che il lavoro non intellettuale sia qualcosa di vergognoso, da praticare solo in caso di disperazione, e che chiunque abbia avuto un lavoro intellettuale abbia diritto ad averlo per tutta la vita. Fermo restando che personalmente ritengo che tutti debbano avere il diritto di cercare di fare un lavoro che, secondo le proprie capacità, gli permetta di realizzare le proprie ambizioni, la mia anima calvinista trova inaccettabile il messaggio implicito che il lavoro manuale sia degradante, che sia qualcosa di cui vergognarsi. Mi risulta difficile non pensare che un tale atteggiamento non sia purtroppo sintomatico di tanti problemi italiani...