Se dovessi attribuire un sottotitolo a questo libro probabilmente sceglierei "elogio del dubbio". Il dubbio, continuo, sottile, onnipresente, è il confine sottile che separa le certezze e i principi dal fanatismo. E il procuratore Colnaghi, il protagonista di "Morte di un uomo felice", è indubbiamente un uomo di principi, nonché di certezze. Certezze e principi che includono la religiosità, il senso della giustizia, e l'onestà incrollabile del fedele servitore dello stato. Una persona con questi principi, se non avesse dubbi, rischierebbe certamente di essere un fanatico, un uomo dal pugno di ferro insensibile ai punti di vista altru. E invece il suo continuo porsi delle domande, il suo chiedersi continuamente se ciò che sta facendo sia la scelta corretta, quella che rispetta i propri valori rispettando al contempo quelli degli altri, lo rende un uomo sereno, saggio.
Le controparti con cui è costretto a confrontarsi dalla storia invece sembrano sconoscere la categoria ontologica stessa del dubbio. I terroristi, i ragazzi che in maniera a tutt'oggi incomprensibile avevano imbracciato le armi e uccidevano presunti nemici di un immaginario popolo che mai si era sognato di attribuirgli questo mandato, loro non hanno dubbi. Hanno piuttosto la certezza fanatica che sola può permettere di uccidere a sangue freddo qualcuno nel nome di un immagginato e fantomatico bene comune.
Il procuratore Colnaghi, come tutti coloro che coltivano il dubbio come strumento di conoscenza, vuole "capire". Capire cosa mai possa animare dei ragazzi che dovrebbero, quasi per legge di natura, amare la vita, a trasformarsi in lucidi e cupi assassini. Lo fa con gli strumenti che ha, ovvero interrogando gli arrestati (che immancabilmente si dichiarano pomposamente "prigionieri politici"), e lo fa leggendo con pazienza i loro deliranti comunicati. Unico fra i propri colleghi, che invece considerano quelli scritti che invariabilmente seguono ogni omicidio alla stregua di carta straccia.
E hanno in un certo senso ragione entrambi. Ha senza dubbio alcuno ragione lui, il procuratore Colnaghi, nel ritenere imprescindibile "capire" cosa sta succedendo, cosa sta succedendo all'Italia, cosa può animare questa gente che sembra uccidere a caso. Ma hanno ragione i colleghi a considerare immondizia quegli scritti. Giunto a metà del libro, dove vengono citati dei brani, non so se inventati o veri, di scritti dei terroristi, ho brevemente interrotto la lettura e sono andato a cercare i comunicati delle Brigate Rosse dell'epoca, degli anni 70, dei cosiddetti anni di piombo, e li ho letti. Anzi, riletti, visto che li avevo letti all'epoca – ma ero un ragazzino, mentre oggi li ho riletti con un altro distacco, e, spero, con un'altra maturità.
Questi scritti colpiscono, più di trent'anni dopo, per vari motivi. Da un lato sembrano esprimere una logica ferrea, carica di sillogismi e di deduzioni. Dall'altro, letti con attenzione l'apparente logica si rivela profondamente fallace, e perché le premesse sono incomprensibili, e perché mai viene chiaramente detto quale sia il punto di arrivo. Al di là di parole tutto sommato altisonanti ma prive in questo contesto di veri contenuti, parole quali rivoluzione, popolo, giustizia proletaria, mai si dice, si spiega dove si vuole arrivare. Rivoluzione per giungere a quale modello di società?
Ma al di là di queste considerazioni sul contenuto, sull'analisi del significato degli scritti "rivoluzionari", ciò che colpisce profondamente è il tono, il linguaggio contorto e burocratico in cui questi testi sono redatti. L'analisi della realtà che i brigatisti propongono, nella sua imperscrutabile oscurità, si rivela come immagine speculare di tutto ciò che essi stessi sostengono di volere abbattere. Letti con occhio filologico i loro testi, mutatis mutandis, potrebbero essere stati scritti da un politico democristiano per un congresso locale della DC quando non da un maresciallo dei carabinieri. Sono testi burocratici, privi di vita, tanto da sembrare impossibile che siano stati scritti da dei ventenni la cui unica attenuante nei confronti dei crimini da loro commessi sarebbe potuta essere il loro idealismo, il loro credere o sperare in un avvenire migliore, più solare, più luminoso. E invece hanno inondato il paese di testi che sembrano i verbali di interrogatori condotti in una tenenza di provincia dell'Arma.
È il procuratore Colnaghi, nel libro, a fare questa considerazione illuminante, una considerazione che mi ha colpito e indotto a riflettere, e che mi ha spinto a cercare e a leggere diversi testi dell'epoca, in primis appunto quei "comunicati" attraverso cui, uno immagina, i brigatisti avrebbero voluto infiammare gli animi del popolo chiamando lo stesso ad una lotta di massa che avrebbe dovuto condurre all'agognata rivoluzione. Una lettura spassionata, decenni dopo, non può che farne riconoscere gli autori come in preda ad un cupo e triste nichilismo, un'ossessione oscura in cui tutto è negativo, e che diventa fine a sé stessa, una spasmodica ricerca di una purezza ascetica il cui esercizio è già un fine.
Non che non vi fossero, allora, motivo per essere arrabbiati, per opporsi al cosiddetto "sistema". La durezza della vita in fabbrica, così certe strutture sociali che cercavano con discreto successo di tenere ciascuno al proprio posto indubbiamente meritavano rabbia e opposizione. Ma in che modo sparare a un giudice anziché a un giurista quando non ad un giornalista o addirittura ad un sindacalista potesse contribuire a rendere il nostro un paese migliore, più libero, mi sfuggiva allora, e forse se possibile mi sfugge ancor più adesso.
Ripensandoci, mentre il fine, la logica feroce ma lucida del terrorismo di destra quando non di stato che gli era contemporaneo, delle bombe sui treni o nelle piazze, era già allora e rimane oggi fin troppo chiara nel suo essere strategia della tensione, la logica del terrorismo di sinistra era oscura allora e rimane oscura anche oggi.
E, nel libro, questo è uno dei crucci del procuratore Colnaghi, che nel suo esercizio del dubbio, si pone continue domande, e teoriche (cos'è la giustizia?, cos'è il perdono?), sia più ampie e generali. Il nostro protagonista è tutto sommato un uomo qualunque, un antieroe, stretto nella sua religiosità un po' desueta che ne è allo stesso tempo un limite e una forza. Un antieroe la cui vita quotidiana sarebbe altrettanto se non più ascetica di quella dei terroristi a cui il suo essere uomo dello Stato li contrappone, ma da cui è profondamente, irrimediabilmente diverso nel suo popolare la propria giornata semplice e modesta di piccoli momenti di gioia, di allegria, di serenità, di curiosità verso il prossimo e verso l'umanità varia che ogni giorno incontra. Una gioia ed una serenità che si confanno al suo essere definito, nel titolo, un uomo felice.
Il lettore di "Morte di un uomo felice" vedrà il mondo attraverso gli occhi del procuratore Colnaghi, un mondo in cui il protagonista sembra voler mettere ordine, ma non perché animato dalla convinzione fanatica di sapere quale è il posto di ogni cosa, ma piuttosto perché convinto che ogni cosa debba avere il proprio posto, anche quando questo non è facile da trovare. E a questa fatica immane dedica la propria vita, fino alla fine, per un paese che non sempre ha saputo meritare tali fedeli servitori.