Negli anni attorno al '68 era de rigueur sostenere che la famiglia borghese fosse la sentina della società, un'istituzione basata sull'ipocrisia che de facto finiva per essere il ricettacolo di tutti i peggiori vizi della borghesia. Senza arrivare agli estremi mostrati da Lars von Trier nel suo inquietante film "Festen", Lagioia si è prefisso di dimostrare con impegno la stessa tesi, con risultati però meno brillanti di quanto l'attribuzione del premio Strega, orgogliosamente proclamata nella fascetta di copertina, mi avrebbe fatto sperare.
L'argomento scelto è sicuramente familiare alla maggior parte dei lettori. Credo che chiunque conosca una famiglia che nasconde, dietro una patina di normalità quando non di felicità, grandi tensioni, se non addirittura odi insanabili accompagnati spesso da grandi crudeltà psicologiche. E la famiglia Salvemini, protagonista attraverso i suoi membri di "La ferocia", è a tutti gli effetti un caso da manuale di famiglia corrosa dal non detto: dietro un'apparenza non solo di una famiglia normale, ma di una famiglia di successo, economico e sociale, un successo raggiunto sotto la guida del capofamiglia e patriarca, imprenditore edile di successo, il lettore scopre a poco a poco nascondersi un complesso di relazioni basate sul non detto, su segreti sottaciuti, nonché su ricatti affettivi quando non su violenze psicologiche che sono la vera trama sotterranea dei rapporti fra tutti i familiari.
L'autore dimostra grande abilità nel mettere a nudo, lentamente ma inesorabilmente, la vera struttura dei rapporti familiari all'interno della famiglia Salvemini. E lo fa con un complesso e sottile gioco fatto di salti temporali, di brevi narrazioni che si spostano avanti e indietro nel tempo, ognuna contenente una piccola nota dissonante che il lettore attento non potrà fare a meno di catturare, e che troverà spiegazione e compimento in seguito, facendo sì che l'immagine quasi idilliaca della famiglia Salvemini all'inizio del libro si trasformi, pian piano, una pagina alla volta, in un ricettacolo di odi repressi. L'autore spoglia le apparenze borghesi poco alla volta, come se stesse sollevando numerosi veli, fino a scoprire la vera natura delle cose.
Però, mentre lo schema narrativo è portato avanti con indubbia abilità, l'uso della lingua non è alla stessa altezza. In particolare, l'autore sembra avere una passione smodata per le metafore; mentre le stesse sono indubbiamente uno degli strumenti chiave della letteratura sin dai suoi albori (basti pensare all'omerico "mare color del vino"), il loro abuso rappresenta la tomba di qualsiasi sforzo letterario. Ancor più quando l'autore tenta incursioni metaforiche nel dominio della scienza, con risultati sfortunatamente, a tratti, grotteschi. Il lettore non può ad esempio fare a meno di domandarsi cosa vorrà dire l'autore quando scrive che uno dei personaggi si sentiva "pesante come un'astronauta" (p. 167), visto che gli astronauti, in orbita, hanno peso nullo, e a terra pesano come qualsiasi altra persona. O cosa vorrà dire quando descrive un paesaggio come simile ad uno del pre-Cambriano, "prima che apparisse la vita sulla Terra" (p. 158), visto che nell'epoca del pre-Cambriano (terminata circa 500 milioni di anni fa) la vita sulla Terra esisteva da almeno 3 miliardi di anni. Altre metafore risultano (almeno a questo lettore!) semplicemente incomprensibili (ad esempio, "il sorriso indecifrabile del piombo sulla carta di giornale", p. 239 -- che vorrà dire?
Più in generale, la lingua risulta in numerose occasioni appesantita da giri di parole e figure retoriche che non giovano alla narrazione né alla leggibilità del libro. Come spesso accade per la produzione editoriale italiana, non è nulla che un buon redattore (l'"editor" delle case editrici anglosassoni) avrebbe potuto aiutare l'autore a migliorare, lasciando intatta la creazione dello stesso ma migliorandone la fruibilità. Peccato, perché sarebbe tutto sommato bastato poco per rimuovere queste sbavature, creando un romanzo che avrebbe portato con sé il lettore dall'inizio alla fine.